Make Art Not War

dal testo in catalogo di Paola Valori

Sono felice di condividere con la Casa Museo Spazio Tadini un progetto come questo, che porta al centro del dibattito un tema tanto attuale quanto imprescindibile come il riciclo dei materiali in oggetti d’arte. Questa collaborazione, senz’altro riuscita porta il cuore oltre l’ostacolo, poiché sono oggetti come le armi da sempre simboli di morte che si trasformano in opere d’arte. Se per giunta poi l’artista è Fabio Ferrone Viola, da sempre attivo nel campo della tutela dell’ambiente e attento ai fenomeni sociali, allora sono doppiamente orgogliosa di portare all’attenzione del pubblico milanese la forza del suo messaggio.  Quello di Ferrone Viola è un lavoro frutto di una instancabile ricerca artistica e umana, portata avanti negli anni, in un tempo in cui produzione e vita proseguono sempre di pari passo.

Dopo “Crush”, la retrospettiva romana al Vittoriano, l’artista fa un passo avanti e approfondisce la sua riflessione soffermandosi sul tema della guerra come una sorta di metafora della vita, trasformando in arte oggetti nati per uso bellico e un tempo utilizzati come strumenti di distruzione. Ancora una volta entra la vita nell’arte, l’idea di arte intesa come ideologia, come strumento utile per una presa di coscienza.  L’esito è eccezionale perché Fabio ha lavorato su vere e proprie armi originali e le ha rimodellate in altra  materia. Giocando con la tecnica dell’assemblaggio, e combinando tra di loro elementi usati quasi come giocattoli da costruire, li ha elevati a coraggiose e iconiche opere tridimensionali: lattine, maschere antigas, cannoni, missili, bombe a mano, taniche militari di benzina, tutti strumenti simbolo del male, che privati della loro funzionalità vengono ricoperti di vernice, dipinti con immagini sacre o con simboli diversi. Tuttavia, la ricerca di Ferrone Viola anche se non è sganciata dal filone storico (basti pensare a Pascali, Kiefer, o alle performance di Burden), si distingue per il suo carattere pop, volutamente gioioso e pieno di speranza. È un canto alla vita, un inno alla pace che ha un doppio scopo: rivendicare all’arte un ruolo catartico e restituire all’oggetto un nuovo utilizzo, come messaggero di umanità. Come in quel volto dolente del Cristo posto su una tanica di benzina, che testimonia con spiazzante chiarezza non solo gli orrori della guerra, ma richiama alla salvifica immagine-icona del volto di Gesù, come segno universale, quasi a voler ricomporre gli strappi che la guerra produce.

Se è vero che negli ultimi anni soprattutto al MAXXI si stanno generando nuovi esperimenti artistici e sociali con un’arte che riutilizza le armi e gli oggetti usati in contesti bellici, le boe di salvataggio per i migranti usate nel lavoro “Lampedusa” di Didier Fiuza Faustino, o la plastica, altro materiale ricorrente in Ferrone Viola, che divora il pianeta nelle foreste di scolapasta (“HubbleBubble” di ChoiJeong-hwa) o ancora  il fiore di loto (“Golden Lotus”) fatto dai teli termici usati dai rifugiati, è anche vero che ci sono altri oggetti e materiali di vario genere come le sedie derivate dal riutilizzo del vetro, “Post Forma” di Martino Gamper, che suggeriscono un invito alla socialità, al dialogo e allo scambio.E non è un caso se questo riuso si intensifica dalla seconda metà del XX secolo, soprattutto in ambiti performativi e installativi, con la conseguenza che le armi reali sono diventate parte integrante e “necessaria” di diverse opere. Impossibile infatti non pensare alla serie di Pascali, (Armi, 1960), fantasiose e provvisorie imitazioni di fucili e mitragliatrici ottenute con pezzi di metallo, barattoli, tubi, sottratti alla rottamazione; o più vicino a Ferrone Viola, il pensiero corre a Kiefer, che nel 2001 ha costruito un carro armato (SeferHechalot, 2001) oa Shootdi Chris Burden, la celebre performance del 1971 in cui l’artista statunitense si fece sparare ad un braccio da un suo amico armato di fucile. Con la mostra Make Art Not War”anche Ferrone Viola riesce attraverso un proprio linguaggio a sublimare l'orrore bellico per mezzo della forza rigenerante dell’arte, ormai radicata in una sua distintiva predisposizione alla cultura del riuso, che trova un personale significato espressivo, politico e popolare.

Una mostra che già dal titolo si fonda sulla speranza come importante sentimento umano, sul bisogno di riscattare l’umanità dalla propria storia, e dalla follia che l’ha portata verso guerre estreme e insensate. Dostoevskij sosteneva che "la Bellezza non èun discorso, ma un fatto": dunque non facciamo la guerra, ma riempiamo il mondo di arte perché con la grandezza e la bellezza se prese sul serio, forse ci possiamo ancora salvare.

Paola Valori